C'è una porta introvata (o perduta) e la memoria è la chiave che la apre". Stephen King
Le luci delle automobili che passavano di notte sembravano creare strane forme sul muro.
Non riuscivo a prendere sonno ed avevo paura.
Dormivamo in quattro in stanza, ma al buio ci si sentiva comunque soli.
Gli occhi andavano allo scantinato, dove ci raccontavamo si potesse nascondere qualche mostruosità e soprattutto indugiavano verso l'armadio e alla porta che vi era nascosta dietro.
Era l'estate degli 11 anni, la prima passata ospite da mia zia.
Estate di giochi, corse, giocattoli, mare, videogiochi e di film e racconti dell'orrore.
Ed in quelle sere, inesorabilmente, si aveva paura.
Si aveva paura di quella strana porta nascosta dietro l'armadio e si aveva paura di quelle ombre che sembravano persone o mostri deformi.
Era chiaro fossero i riflessi dei fari dell'auto che ingrandivano la forma dei mobili, ma vallo a spiegare ad una mente undicenne infarcita di spiriti, fantasmi e lupi mannari.
E così in un giorno torrido come tanti altri, si decide di trovare la chiave e di tentare di aprire questa misteriosa porta nascosta dietro l'armadio.
Volevamo esorcizzare la paura oppure la curiosità era più forte della fifa, non lo so, non lo ricordo.
Ricordo i passi ovattati, i movimenti silenziosi per non farci sentire dagli adulti che stavano al piano di sotto, ricordo la chiave che inserimmo nella toppa e l'emozione e la titubanza nell'aprirla.
Era una porta comunicante che dava in una casa abbandonata.
Una cosa strana, che quando ci penso, mi pare strana tuttora.
Ricordo la polvere e il pavimento di legno.
Ricordo gli scricchiolii quando ci misi un piede sopra.
Ricordo il portafoto argentato con la foto in bianco e nero di una vecchina dallo sguardo torvo, severo.
Ricordo quel comò marrone antico su cui era poggiata la foto e le tante ragnatele sparse negli angoli della casa.
O meglio di quel poco che si vedeva dalla posizione in cui mi trovavo.
Provai a fare un passo ed entrare ma avevo paura che il pavimento non mi reggesse.
Avevo paura mi potessero ritrovare a chilometri di profondità, chissà dove.
Ma uno dei miei due cugini entrò.
Ricordo il rumore delle assi di legno ed i suoi passi felpati, incerti.
Arrivò fino al comò e lo aprì.
Si mise a frugarci dentro e poi lentamente come era entrato ne uscì con uno sguardo fiero, orgoglioso.
Pensavamo avesse trovato chissà quale trofeo.
Nella mia mente pensavo a qualcosa di misterioso, ma così non fu.
Non si trattava altro che di un portachiavi dei mondiali di calcio in Argentina del 1978.
Ancora adesso che sono passati così tanti anni, mi domando se quella porta a casa loro esiste ancora e se ancora esiste quella casa polverosa ed abbandonata che si trovava alle spalle.
E chissà se il quadretto con il volto di quella vecchina è ancora lì, in attesa di posare lo sguardo su qualcun'altro...
Vorrei leggere continuamente cose del genere.
RispondiEliminaBellissimo.
Un'avventura fantastica... quando si è piccoli, tutto viene deformato, o forse i bambini vedono le cose per come sono davvero?
Moz-
Chissà. caro Moz.
EliminaVorrei avere quella curiosità e quella immaginazione di quando ero bambino.
Ma penso la vorremmo un po' tutti dopotutto, no?
Sì, hai ragione.
EliminaSarebbe una vita migliore.
Moz-
Penso che è la prima volta che leggo qualcosa da te narrato.
RispondiEliminaSembra promettere :)
È una storia vera. :-)
EliminaBrrr.... Ha tutte le carte in regola per essere un'ottima storia dell'orrore !!! Spesso la realtà fornisce gli spunti migliori...! ;-p
RispondiEliminaTroppo buono, Petey.
EliminaSebbene non credo che sarei all'altezza di scrivere qualcosa di decente. :-)