lunedì 23 novembre 2020

Quando mi vestirono di verde cachi ( prima parte )

" E' la storia di uno, di uno (ir)regolare,

che poi lo hanno mandato, a fare il militare

Che lui se ne sbatteva di tutte quelle storie

ma era uno normale

e lo doveva fare." (cit.)




Tra molti incubi ricorrenti degli italiani c'è quello di rivivere la maturità, io invece ricordo che uno dei miei sogni più brutti riguardava un presunto errore di firma che faceva sì che io dovessi rifare il militare. Fossi stato un attore del cast di Nightmare, probabilmente Freddy mi sarebbe apparso con la mimetica. :-P

Scherzi a parte, mi sono reso conto di non aver mai parlato di questa mia esperienza o meglio inesperienza, perché davvero, non credo che io fossi pronto mentalmente per partire soldato, avevo ancora la testa di un bambino, cosa che ebbe parecchie ripercussioni su quel percorso.

Ho deciso però di partire da lontano e di dividere questo post in due parti: quello inerente le due visite di leva, e quello della leva effettiva.

Non aspettatevi storie degne di Hemingway, Full Metal Jacket o altro, ma quelle di un ragazzo spaurito e totalmente privo di esperienza, ed in quel periodo totalmente inadatto ad un percorso simile.

Le mie conoscenze su questo tema derivavano dai fumetti come Sturmtruppen, dalla tv e dal cinema con Classe di ferro e Soldati -365 all'alba, oppure i racconti di mio padre sul suo periodo di leva o storie di guerra di nonni che non ho mai conosciuto.

Ricordo che mio padre quando ricordava quelle storie mi mostrava sempre delle lettere che scrisse e spedì ai suoi durante il suo periodo di leva, e che conservo tuttora, anche se non le ho mai lette, non so perché.

Parliamo di lettere del 1950 o giù di lì, che lui anche negli ultimi anni della sua vita ancora prendeva in mano e rileggeva.

A casa avevo anche il vissuto di mio fratello che partì almeno cinque anni prima di me, addirittura nei Bersaglieri ed è stato lì che cominciai a realizzare che presto o tardi sarebbe toccato a me.

A 17 anni e qualcosa mi arrivò la cartolina precetto per la visita di leva in Marina.

Ricordo tutto esattamente: era febbraio e non ero entrato a scuola ed ero a casa mia insieme ad un mio compagno di classe a giocare al computer quando suona il campanello, apro ed il messo mi consegna quel plico con mio somma perplessità e mestizia.

Feci una cazzata sesquipedale, nascosi la cosa ai miei per parecchio tempo, nemmeno io so perché, forse perché volevo rimandare il più possibile il doverne parlare o me ne vergognavo, quando dico che ero stupido e molto più immaturo dei miei anni, è una pura verità.

Alla fine quando ormai mancavano pochi giorni alla partenza per quel di Taranto per la visita fui costretto a mostrare la lettera ai miei dicendo delle bugie sul perché fosse arrivata così in ritardo.

Tanto che dovetti correre a farmi la carta d'identità d'urgenza ( non l'avevo ancora ).

Ho vissuto con enorme stupore e un senso di baraonda quei due giorni.

Non conoscevo nessuno, era la prima volta che mi allontanavo per due giorni da casa, ed il tutto per me era nuovo, ma anche parecchio strano.

Gli altri mi sembravano più sgamati e maturi, gente con occhiali da sole tipo Top Gun che si sentivano fighi, alcuni che fingevano malattie per farsi riformare ( ricordo uno che si fingeva cieco ) e gente che non sapeva nemmeno leggere e scrivere, c'era un po' di tutto in quel carrozzone.

Facemmo test e visite e feci un minimo di amicizia con alcuni corregionali con cui passai la serata di libera uscita.

Al secondo giorno quando eravamo tutti in cortile ad attendere la libera uscita, viene fatto il numero del cartoncino azzurro che mi avevano dato all'ingresso e quindi vengo accompagnato in una sala d'attesa.

Quando mi viene dato il permesso di entrare, mi trovo al cospetto di qualcuno d'importante, suppongo un colonnello o comunque un'autorità di rilievo visto che aveva due piantoni a fianco e la bandiera italiana sull'asta dietro di lui, che dopo avermi rimproverato perché mi stavo sedendo sulla sedia senza permesso e aver appoggiato le mani sulla scrivania, se ne esce con una frase brutale:

" Lei vuole fare il militare? Mi dia una risposta precisa."

Ovviamente avrei voluto dire no, ma in tutta onestà non volevo tornare a casa e dire ai miei e poi ai miei amici che non ero all'altezza o che ero stato riformato, e poi mi avevano anche messo in testa che non avrei più potuto fare concorsi e che potevo persino perdere il diritto di voto, quindi risposi in maniera intermedia che per me era una cosa indifferente.

Mi disse allora che la mia struttura fisica non era adatta per la marina, che avevo un' insufficienza toracica e di mangiare di più, perché l'anno dopo avrei fatto la visita di leva per l'esercito.

In pratica per la marina non ero all'altezza, suppongo.

Ricordo che tornai a casa un giorno prima del previsto con un treno notturno e dovetti stare nella stazione parecchie ore ad aspettare mentre accanto a me, dei tipi loschi si sfottevano un ubriacone o senzatetto.

Per fortuna non ero solo, ma con me c'erano anche altre persone che furono fatte rivedibili, tra cui un mio corregionale.

L'anno dopo mi è arrivata un'altra cartolina, ma quella volta ero più preparato e vissi la cosa più tranquillamente.

Per giunta la visita era nella mia regione a Catanzaro, e praticamente non c'era pernottamento, quindi si facevano le visite ed i test e poi si tornava a casa e si tornava il giorno dopo.

Esperienze particolari le ricordo anche in quella visita: un ragazzo rom che mi disse che lui i test non li aveva fatti perché non sapeva scrivere ed aveva firmato con una x, parecchi che mi dicevano che fossero stati mandati da una bellissima psicologa per via di alcune domande del test, e soprattutto il fatto che nell'esercito non si fecero nessuno scrupolo del mio essere scheletrico e quindi risultai idoneo.

Caso vuole che a fare la visita insieme a me ci fosse proprio quel mio compagno di classe che era presente con me all'arrivo della mia prima cartolina per la visita di leva, tanto per chiudere il cerchio.

La cosa che più mi restò impresso è che prima di lasciarci liberi ci divisero in due tribunette in cui stavano quelli idonei e quelli che per malattie o altro erano rivedibili, e la stra-grande maggioranza stavano nella seconda tribunetta, tanto che quando arrivai con gli opuscoli in mano che mi descrivevano quei dieci mesi futuri che avrei destinato allo stato mi sentii abbastanza isolato visto che eravamo davvero in pochi, tanto che qualcuno ci fece persino il verso.

Dopo questa visita ci furono due anni di rinvio per questioni scolastiche, visto che sono stato bocciato due volte, e quindi sentivo che quella minaccia diventava sempre più tangibile e inesorabile con il passare del tempo.

Avevo molta paura del militare, sono sincero.

Nel 1998 già alcuni dei miei migliori amici erano partiti.

Ed io li seguì per ultimo, poco dopo.

Quell'anno partimmo in quattro.

Il mio migliore amico, che era partito parecchi mesi prima di me, una sera mi telefonò dicendo che gli era arrivato un libro in caserma con tutte le prossime partenze, ma che il mio nome fino ad agosto ( l'ultimo mese scaglionato in quel tomo ) non era in elenco, ma che c'era quello di un altro di noi quattro che partì successivamente ad agosto.

Cominciai un po' ad illudermi, nel senso che ipotizzavo che magari potevo essere congedato per sovrannumero, visto che si diceva che se non venivi scaglionato entro dicembre, probabilmente non mi avrebbero chiamato più.

Ricordo bene che quel periodo del bimestre di agosto/settembre ogni volta che tornavo a casa mi saliva un po' l'angoscia perché pensavo: " Ecco, ora apro la porta di casa, sentirò i miei confabulare a bassa voce e mio fratello sfottermi dicendo che dovrò fare il botto."

Le illusioni si infransero sul finire di un'estate, quando suonarono alla porta, ed ero solo in casa.

Venne il messo a consegnarmi la busta ( aggiungendo un mi dispiace ),e ricordo che mi sentii persino sollevato.

Subentrò in me una sorta di pacata rassegnazione.

La cartolina portava in calce che giorno 18 novembre del 1998 dovevo presentarmi a Trapani...

( Continua...)


Alla prossima!



mercoledì 11 novembre 2020

In zona rossa con Hemingway

 " Il fatto che un libro fosse tragico non mi rendeva infelice perché ero convinto che la vita è una tragedia e sapevo che può avere soltanto una fine. "

Addio alle armi - Ernest Hemingway



Ho preso questa frase da un libro in cui si potevano sottolinearne e farle proprie parecchie altre molto più belle e significative, perché ho notato una costante che a quanto pare quindi era voluta.

C'è una sorta di ineluttabilità inevitabile nei romanzi di Hemingway.

Ma non solo nei suoi, ma in quelli di molti altri grandi della letteratura, soprattutto di quella della prima metà del '900.

E' la tragedia a rendere grande un romanzo quindi?

Pensiamoci un attimo, molte delle più grandi storie letterarie non hanno quasi mai un lieto fine, e in tre dei quattro libri di Hemingway che ho letto, tutto ciò è praticamente una costante.

Ho sempre avuto il magone quando sono arrivato alla fine di un suo libro.

Eppure inizialmente alcune delle sue storie non mi sono arrivate subito.

Qui lo ammetto che alla prima lettura Fiesta ed Addio alle armi non mi erano piaciuti, mentre Per chi suona la campana ed Il vecchio e il mare li ho apprezzati all'istante.

Per quanto riguarda l'ultimo è facilmente intuibile il perché visto che è un romanzo piuttosto breve ed immediato, è quasi una parabola molto facilmente leggibile rispetto agli altri romanzi che hanno una struttura narrativa molto più corposa.

Ciò non toglie che Il vecchio e il mare sia una storia bellissima.

D'altronde è con questo piccolo testo che il buon Ernest ha vinto il premio Pulitzer e soltanto un anno dopo insignito con il Nobel della letteratura.



In queste settimane che sono coincise con l'entrata nella zona rossa della mia regione, Hemingway è stata una buona compagnia, e fortuna abbia voluto che nelle scorse settimane mi ero fatto una buona scorta di libri alle bancarelle dell'usato, dove per pochi Euro trovai delle vecchie copie di Fiesta e Addio alle armi.

Come ho scritto più su, ho apprezzato tantissimo la rilettura di questi due tomi, forse perché ero più tranquillo e rassegnato dal fatto di non poter uscire e quindi con un atteggiamento più concentrato, perché gli scritti di Hemingway hanno molti dialoghi ed hanno bisogno di una soglia alta di attenzione, ergo forse la prima volta ho sbagliato approccio.

C'è molto della sua vita in queste storie.

Ernest ha vissuto una vita molto vivida ed avventurosa, ed ha messo molte delle sue esperienze nei suoi romanzi, ed infatti i suoi personaggi risultano piuttosto vividi e suggestivi, anche nelle loro emozioni, che talvolta sfiorano un po' la meliosità, va anche detto.

Ma va bene così, visto che comunque i protagonisti di Fiesta e Addio alle armi sono uomini e donne piuttosto giovani.

Non sono qui per raccontare di questi romanzi, sarebbe inutile, visto che l'opera di Hemingway è stata pesata e giudicata dai più grandi critici dell'ultimo secolo, ed esistono numerosi saggi che parlano delle sue storie, ed io non ne sarei all'altezza, ma lasciatemi dire che nelle sue storie c'è tutto.

Dalle corride e alle fieste spagnole con le corse dei tori di Pamplona, alle montagne italiane della prima guerra mondiale, dagli amori al sesso, fino alla tragedia e alla morte.

D'altronde anche lui ha condiviso il destino di alcuni personaggi dei suoi romanzi, anche se nel suo caso è stato per morte scelta.

C'è un vecchio racconto del mio amatissimo Ray Bradbury in cui un uomo con una macchina del tempo prova a salvare la vita di molti scrittori vittime di morte violenta tra cui Hemingway.

Perché anche Ray, come me, come chissà quanti migliaia di altri, pensa che avrebbe ancora potuto regalarci delle opere immortali come queste.

Ma Ernest non la pensava così.

Non ricordo dove, tempo fa, lessi una delle sue ultime interviste, in cui affermò che lui sarebbe vissuto fin quando avrebbe avuto altre storie da scrivere e raccontare.

Comunque sono contento che esistano sue opere che io non ho ancora letto, e che quindi conto di reperire appena potrò, quindi per me, almeno narrativamente parlando, sarà ancora vivo.


" Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche una zolla venisse lavata via dal mare, l'Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. e dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te."

John Donne


Alla prossima!




martedì 3 novembre 2020

L'olivetti lettera 32


Bazzico su Instagram ormai da tanto tempo, e mi sono accorto con il passare degli anni che nelle foto inerenti i libri, capita molto spesso di trovare in posa una macchina da scrivere Olivetti.

Sono quindi arrivato a chiedermi com'è che questo oggetto sia così in voga tra le/gli bookstagrammer.

L'avevano avuta anche loro in casa, l'avranno comprata perché viene considerata un oggetto di culto tra i letterati e gli appassionati di letteratura?

Non ne ho idea.

Fatto sta che è un po' il prezzemolo delle foto quando si tratta di libri.

Ma non capita soltanto nelle foto su Instagram di notarla, ma appare spesso nei video di case abbandonate, dov'è una delle cose che salta più all'occhio, e fa bella mostra di sé anche nei mercatini delle pulci, dove non è raro intercettarne qualcuna in vendita.

Possiamo in un certo senso considerarla l'antenato del computer?

Per quel che mi riguarda un po' sì.

Perché io non immaginavo ne girassero così tante.

E non parlo solo della Lettera 32, ma anche dell'ancora più vetusta versione, ovvero la 22.

Io ho a casa una 32 che i miei all'epoca ( suppongo perché non ricordo ) comprarono per mia sorella e mio fratello che ben prima di me frequentarono L' istituto Tecnico Commerciale.

Questa scuola aveva due ore a settimana dedicate alla dattilografia e quindi l'insegnante consigliava di procurarsene una per allenarsi.

I miei quindi comprarono una Olivetti Lettera 32 con annessa valigetta, ed io la conservo da allora.

Anche se oggi è parecchio vissuta, ma d'altronde ha praticamente trent'anni.

Anche se ero piccolo, ricordo che la usavo anch'io.

Mi piaceva scrivere e ricordo che ero piuttosto bravo e veloce a battere a macchina.

Scrivevo brevi racconti che poi facevo leggere ai miei con protagonisti gli amici di mio fratello che venivano a casa, e ricordo che li facevo ridere.

Anch'io ho frequentato successivamente lo stesso istituto scolastico e quindi anch'io per due anni feci dattilografia.

Ero parecchio veloce a scrivere, il che era strano per i miei compagni di classe che notoriamente pensavano fossi un asino e quindi guardavano con sospetto questa mia abilità, e penso avessero ragione.

Nel senso che c'era una tecnica che veniva insegnata per scrivere, in cui bisogna usare tutte e cinque le dita, ma io da autodidatta avevo il mio stile che andava contro l'insegnamento, ed infatti per scrivere non riuscivo ad usare l'anulare ed il mignolo per battere alcune lettere, quindi era un po' come non rispettare le regole.

Non che l'insegnante se ne sia mai accorta o ci facesse caso, ero abbastanza furbo da cercare di non finire tra i primissimi.

Con la fine del primo biennio superiore questa materia non veniva più insegnata, e complice l'arrivo dei primi computer a casa mia, la macchina da scrivere non venne più usata, ma inserita nella sua apposita valigetta e conservata nel posto dove risiede tuttora.

Ultimamente mi sta venendo la voglia di tirarla fuori, pulirla e magari inserirla come soprammobile in qualche mensoletta.

Mi dispiace un po' vederla conservata a memoria imperitura dentro un armadio.

Ma in verità ho fatto questo post per capire un po' perché è così presente nelle foto dei bookstagrammer.

Sono figli di scrittori e giornalisti, avranno frequentato la mia stessa scuola, o è solo un oggetto vintage associato alla letteratura?

E soprattutto lo chiedo ai miei pochi e sparuti lettori, ne avete qualcuna a casa?

Sono curioso.


Alla prossima!